di Claudia Tubertini*
Il dibattito sulla legge Delrio (l. 56/2014) ha avuto in questi giorni un fortissimo rilancio a seguito dell’anticipazione dei contenuti delle Linee guida elaborate dal Tavolo tecnico istituito presso la Conferenza Stato-Città per la revisione organica della disciplina in materia di Province e Città metropolitane. L’attenzione della politica e dei mezzi di comunicazione si è concentrata tutta sul ripristino dell’ elezione diretta per le Province. Ben poco, anzi per nulla si è parlato, invece, delle proposte formulate a proposito della Città metropolitane, altro elemento centrale della riforma del 2014. La prima notizia importante è che nelle linee guida la permanenza in vita delle Città metropolitane non viene messa in discussione: si parte, anzi, dal presupposto che il loro specifico e differenziato ruolo di governo, promozione e sviluppo delle aree metropolitane e, con esse, dell’intero Paese, ne fondi e giustifichi l’esistenza. La seconda, altrettanto importante notizia è che il proprium delle Città metropolitane viene individuato nella necessaria compenetrazione con i comuni, considerata essenziale per congiungere le dinamiche di prossimità con quelle di area vasta, per la semplificazione dei processi decisionali e per il coordinamento tra sistemi amministrativi. Ne deriva una netta opzione a favore della forma di governo di secondo grado, che viene individuata come l’unica possibile; confermando, altresì, l’attribuzione automatica al Sindaco del comune capoluogo della carica di Sindaco metropolitano. Questa stretta compenetrazione tra comuni e Città metropolitana viene applicata anche alle funzioni, per le quali si propone un riassetto nel quale la pianificazione generale del territorio e la gestione dei servizi pubblici locali vengono affidate all’ente metropolitano, lasciando ai comuni solo i servizi di prossimità.
Sin qui, le proposte appaiono in coerenza con la necessità di riordinare senza stravolgere l’assetto attuale delle Città metropolitane. Ma vi è di più. Le bozze di linee guida contengono, infatti, anche innovazioni più radicali. La prima è quella che attiene al territorio metropolitano, la cui dimensione viene ritenuta inadeguata, nella maggior parte dei casi, al ruolo che esse dovrebbero rivestire: affermazione senz’altro condivisibile, che però viene declinata come riduzione dei confini metropolitani, a vantaggio di una riespansione delle Province. La conseguenza di tale scelta è netta: in primo luogo, il territorio metropolitano deve limitarsi al comune capoluogo ed ai comuni della prima cintura urbana (le Linee guida parlano di “stretta conurbazione”); la riperimetrazione viene peraltro affidata direttamente al legislatore statale, con buona pace delle esigenze di partecipazione delle comunità locali e delle Regioni. In secondo luogo, il territorio metropolitano perde il carattere di elemento costitutivo dell’ente: quest’ultimo, infatti, non è più alternativo, ma complementare alla Provincia di riferimento, che viene, quindi, ripristinata nei suoi originari confini, e – ovviamente – nell’esercizio delle proprie funzioni.
Al di là dei dubbi di legittimità di queste proposte, ci si chiede se ridimensionamento delle Città metropolitane, praticato in modo generalizzato, sia sempre utile, ma soprattutto, come si possa predicarne la valorizzazione imponendone la convivenza con un ente provinciale dotato di legittimazione diretta. Senza contare i problemi successori derivanti dal ri-trasferimento delle funzioni ex provinciali dalle Città metropolitane alle riesumate Province, e dalla perdita delle relative risorse per le Città metropolitane, tuttora prive di linee di finanziamento dedicate. Si tratta di problemi la cui portata non può essere trascurata e che richiedono l’apertura di un urgente dibattito, libero da preconcetti. Soprattutto, un dibattito che finalmente ricordi che oltre alle Province, ci sono anche le Città metropolitane.
*Università di Bologna claudia.tubertini@unibo.it