di Matteo Robiglio*
Stiamo vivendo un esperimento di trasformazione dello spazio delle nostre città e delle nostre case senza precedenti per intensità, scala, estensione. Che produrrà una mole senza paragoni di fatti e dati da analizzare e interpretare. Ci vorrà tempo.
Non deve essere la paura dell’emergenza a guidarci, ma la speranza del progetto. Abbiamo sperimentato che è possibile agire in tempi rapidi, costruire decisioni su evidenze misurabili, cambiare abitudini individuali e comportamenti sociali, riorganizzare processi complessi, unire pubblico e privato per obiettivi comuni.
Abbiamo dimostrato inventiva e adattamento, riuscendo in pochi giorni a ibridare fisico e digitale come mai avevamo saputo fare: l’apprendimento e il lavoro a distanza su scala di massa sono stati in larga parte un successo insperato, risultato di uno sforzo collettivo senza precedenti. Abbiamo sperimentato il potenziale straordinario delle nuove tecnologie, e insieme i loro limiti.
Abbiamo anche misurato inadeguatezze, fragilità e ritardi – che si manifestano nello spazio urbano come ineguaglianze di accesso e di dotazione: non tutti hanno un tablet potente, una connessione veloce, una bella casa.
Dovremo ridisegnare lo spazio pubblico delle nostre città per coniugare libertà di movimento e distanziamento. Possiamo farne l’occasione trovare un nuovo equilibrio tra mobilità pubblica e privata. Sappiamo da tempo che piedi e pedali sono la tecnologia più immediatamente disponibile per coniugare libertà e sostenibilità, e che possono integrarsi in forme nuove con trasporto pubblico e mobilità condivisa. Allarghiamo subito lo spazio dedicato a pedoni e biciclette. Restituiremo qualità alle nostre piazze e strade, e all’aria che abbiamo in questi giorni finalmente respirato migliore.
Dovremo ridisegnare gli spazi della formazione, della cultura, della produzione materiale e immateriale. Abbiamo capito che spazio e tempo vanno ripensati in un progetto che li organizzi in modo nuovo: distanziare e desincronizzare. Scopriremo probabilmente di avere bisogno di meno spazio, più generico e flessibile, ma di qualità più alta e molto più attrezzato.
Dovremo ripensare alla salute come questione urbana, non più delegata a pochi luoghi di alta specializzazione. Avremo bisogno di presidi diffusi di monitoraggio della salute. Potremmo avere bisogno di grandi spazi che siano facilmente convertibili in temporanei luoghi di cura; dovremo forse ripensare nella stessa logica i luoghi dell’abitare temporaneo – dall’albergo allo studentato. Dovremo ripensare approcci impiantistici consolidati – ad esempio il trattamento dell’aria – che si sono rivelati pericolosi. Incorporeremo forse nello spazio domestico dotazioni minime per la cura e il monitoraggio della salute a domicilio – come vi abbiamo un secolo fa incorporato acqua corrente ed energia elettrica. Risponderemo così in modo nuovo anche alle domande di una società che invecchia, facendo di case e quartieri spazi davvero abilitanti e riducendo la necessità di strutture separate, che hanno mostrato in questa emergenza tutti i propri limiti.
Dovremo rimettere in cima alle nostre agende urbane il diritto alla casa come fondamento di cittadinanza, autonomia e stabilità: ridefinendo politiche pubbliche e prodotti privati. Saranno case arricchite di spazi privati di relazione con l’esterno, materializzazione del desiderio di un giardino, un terrazzo, una loggia; di spazi e reti per il lavoro e la formazione, premessa di ritmi di vita più liquidi e liberi; di spazi e servizi condivisi che estendano e integrino lo spazio abitativo individuale rendendo possibili le relazioni di prossimità di cui stiamo riscoprendo il valore. Potremo attivare per rinnovare le case il risparmio delle famiglie, semplicemente riorganizzando il sistema ricco ma oggi dispersivo e frammentario degli incentivi fiscali: ne otterremo una nuova qualità dell’abitare, e finalmente anche quel rinnovamento energetico, strutturale e tecnologico di un patrimonio vecchio, obsoleto e insicuro che da trent’anni senza successo inseguiamo.
Primi incompleti appunti. Ma che delineano un approccio possibile. Nessun grande piano, nessuna grande opera, nessuna grande riforma, nessun grande esodo, nessun potere eccezionale. Operazioni ordinarie con conseguenze straordinarie. Radicale riuso e ridisegno dell’esistente. In grado di concretizzare in esiti misurabili in tempi rapidi le grandi energie pubbliche e private che abbiamo riscoperto di avere, nella direzione che abbiamo imparato di nuovo a desiderare: città più sicure, più accessibili, più ecologiche, più funzionali, più giuste e più belle.
*professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Torino e coordinatore del Centro ricerca interdipartimentale FULL – Future urban legacy lab matteo.robiglio@polito.it