di Francesco Gastaldi*
Ci si deve preparare, a livello nazionale e locale, ad altri modelli socio-economico o tutto tornerà come prima? Si potrà tornare alla “normalità” che abbiamo conosciuto? Come reagiranno i vari territori? Si allargheranno disuguaglianze, alcune aree sapranno reagire meglio di altre, gli ambiti marginali ne usciranno ancora più deboli? Quali nuovi equilibri geopolitici internazionali? L’Unione europea e altre istituzioni sovranazionali dovranno cambiare radicalmente per non perire, in quali direzioni andare?
Sono interrogativi che, in diversa forma, attanagliano molti osservatori e studiosi di politiche urbane e analisti territoriali. Ci sentiamo però impotenti, è possibile fare previsioni in questo quadro di incertezza e di indeterminazione? Ci ha colpito il modo repentino in cui abbiamo dovuto riformulare le nostre viste, le nostre città, i luoghi, gli ambiti di aggegazione ci sono apparsi come mai li avevamo conosciuti.
Forse, quando l’Italia e il mondo “riapriranno”, ci metteranno un bel po’ per tornare dove erano prima. Non è detto che ci riescano del tutto, non è detto che questo sia totalmente auspicabile. Quali processi di apprendimento sociale e istituzionale potremo (e forse dobbiamo) sviluppare? Su questo tema si segnala l’opinione del direttore di Technology Review, magazine del Massachusetts Institute of Technology, Gordon Lichfield. Il suo articolo, che è circolato molto in questi giorni sui social media afferma: “Per fermare il coronavirus dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, facciamo esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari”. Lo studioso ha poi proseguito parlando di alcune cose “non torneranno mai più”, l’attuale guerra in corso ci cambierà anche nell’evenienza di future pandemie. Secondo Lichfield ciò che ci sta capiterà nei prossimi 18 mesi non ha precedenti e ci muoviamo in una terra ricca di incognite.
Non possiamo immaginare ancora pienamente gli effetti che avrà l’epidemia in corso sull’economia italiana e mondiale , sarà profonda almeno quanto quella del 2008, se non peggiore e con caratteri diversi. È ancora presto però per avere stime ufficiali sulle dimensioni di questa crisi anche se sono circolate diverse ipotesi (secondo diverse fonti diminuzione PIL italiano su base annua fra -3 e -8%). L’ISTAT pubblicherà i dati sull’economia nel primo trimestre 2020 soltanto ad aprile, Affari&Finanza de La Repubblica ha parlato della prima estate italiana “senza turismo”. Il dibattito su “fabbriche aperte/chiuse” e sulle misure di politica economica per attenuare i possibili effetti negativi, ha fatto più volte capolino con grossi interrogativi anche sulla tenuta nelle periferie, aree marginali, categorie sociali deboli.
Necessariamente anche le politiche urbane e territoriali, a scala locale, regionale, nazionale dovranno tenere conto di tutto questo. In questo ultimo mese, da diverse posizioni politiche e culturali, sono emerse critiche e riflessioni sul ruolo (e ingerenza) dello Stato e degli enti pubblici nei confronti delle libertà individuali e sull’adeguatezza delle forme istituzionali e di democrazia rappresentativa rispetto al periodo emergenziale. Il virus ci cambierà economicamente e socialmente, di più di quanto successo per effetto del terrorismo, della crisi petrolifera, dell’islamismo radicale, delle crisi finanziarie. Siamo smarriti, incerti, come in un tempo sospeso, siamo in attesa, ci illudiamo che quando il Covid-19 sarà sconfitto, si tornerà alla vita di sempre. Forse non sarà così, credevamo che la nostra generazione non avrebbe conosciuto “guerre”, a volte capita di vivere la storia in prima persona.
* Università IUAV di Venezia gastaldi@iuav.it