di Walter Vitali*
Cambierà tutto? Non cambierà nulla? Forse la cosa più probabile è che molto cambierà, ma non tutto nella direzione necessaria. E presto si dimenticheranno le lezioni che andrebbero apprese da quel che è accaduto. Quindi, come sempre, nulla è scritto e molto dipende da noi.
La scienza ci dice che potrebbe succedere di nuovo. I cambiamenti climatici, degli habitat e della biodiversità, potrebbero generare altri eventi pandemici come il virus COVID-19. L’impatto sociale, devastante, è il più evidente e probabilmente è quello destinato a produrre gli effetti di più lungo periodo.
Anche senza immaginare scenari apocalittici, risulta evidente che la crisi ambientale è determinata dal modello di sviluppo economico dominante che, per sua stessa natura, l’ha accelerata all’ennesima potenza. Lo shock economico globale è talmente gigantesco, insieme all’impatto emotivo delle immagini dei ghiacci dei poli che si sciolgono, da costringere tutti a guardare le cose in modo diverso. Si può fare strada l’idea che i costi economici, sociali ed ambientali del tornare a tutto come era prima siano maggiori del proporci seriamente di cambiare modello. Cioè di metterci sulla strada dello sviluppo sostenibile, ma per davvero e non solo con qualche facile slogan.
La conoscenza esperta e le competenze, tanto evocate nella crisi, possono aiutare la comunità e i decisori ad orientarsi su questioni difficili ma fondamentali.
Per prima cosa non bisogna fare come fece l’Europa dopo la crisi del 2008-2011 da cui non siamo mai realmente usciti. Le politiche di austerità esasperate e una crescita esclusivamente basata sulle esportazioni delle economie più forti, a partire da quella tedesca, hanno prodotto effetti negativi a cascata compreso il riemergere degli egoismi nazionali.
Ora sembra che il vento possa cambiare. Nelle conclusioni del Consiglio europeo del 26 marzo scorso, quello della rottura sugli Eurobond, è scritto che occorre «una strategia di uscita coordinata, un piano di rilancio globale e di investimenti senza precedenti» per una crescita sostenibile «integrando, tra l’altro, la transizione verde e la trasformazione digitale e traendo dalla crisi tutti gli insegnamenti possibili». Ma il rischio è che la montagna europea, sempre stretta tra veti incrociati, produca un topolino. Too little, too late.
L’Italia, mentre cerca giustamente di far sentire la propria voce a Bruxelles, deve preparare un Piano nazionale di ricostruzione (il tanto evocato Recovery plan o Piano Marshall), anche per essere più credibile in Europa. I pilastri possono essere i due indicati nel documento del Consiglio, la transizione verde (con tutti i provvedimenti del Green deal della Commissione Von der Leyen) e la trasformazione digitale (che significa anche innovazione, ricerca e conoscenza), con in più la tutela della salute (compreso l’annullamento delle disuguaglianze territoriali) e la lotta alla povertà.
Per ognuno di questi quattro pilastri bisogna darsi obiettivi ambiziosi e avere il coraggio di rivedere in funzione di essi tutti gli strumenti del bilancio pubblico e l’intera agenda politica e istituzionale del Paese.
«La battaglia per lo sviluppo sostenibile si vince o si perde nelle città» (Eugenie Birch, Co-Chair of SDSN cities network). Le città hanno sofferto la stagione delle politiche di austerità. Ma la loro trasformazione verso la sostenibilità è la direttrice fondamentale dello sviluppo nella fase in cui occorre stimolare la domanda interna e favorire gli investimenti, sia pubblici che privati. Le città dunque tornano centrali. Ma le città come diciamo noi di Urban@it, con le loro periferie e in una visione integrata con le aree periurbane, i territori della postmetropoli, i territori fragili e le aree interne.
Con o senza Agenda urbana. Le politiche urbane nell’agenda pubblica del Paese, questa è la vera priorità. Quanto agli strumenti, si vedrà.
*Direttore di Urban@it direttore@urbanit.it