di Mariavaleria Mininni*
A chiusura della XXII Conferenza della Società Nazionale degli Urbanisti “L’Urbanistica Italiana difronte all’Agenda 2030. Portare territori e comunità sulla strada della sostenibilità e della resilienza” ( https://siu.bedita.net/xxii-conferenza-2019) possiamo dire che le aspettative sono state in parte soddisfatte, in primo luogo, mostrando i tanti limiti delle retoriche prodotte dalle parole sostenibilità e resilienza sostenute da scenari problematici, slogan e buoni intenti, e secondariamente, sostenendo la maggiore attenzione che occorre prestare alle relazioni tra politiche e pratiche del nostro mestiere, molte da sempre attente all’ambiente, senza sapere di farlo, guardando alla ricchezza dei territori e i loro saperi radicati che hanno elaborato esercizi importanti da cui muovere.
Dalla prima plenaria aperta a Matera, città simbolo di un’esperienza abitativa che si è da sempre confrontata con la scarsità delle risorse e la durezza della sua natura carsica, luogo fondativo dell’antropologia, sono stati lanciati alcuni posizionamenti concettuali che hanno orientato il dibattito nelle plenarie delle giornate successive. Nelle plenarie chiamate dialoghi, alcuni esperti (plenaria II e III), sollecitati dai moderatori, hanno discusso le loro ricerche sul tema proposto, mentre in altre (plenaria IV) si sono interrogati alcuni amministratori o figure rappresentative delle istituzioni che operano nel campo della sostenibilità sull’applicazione dell’Agenda 2030.
Possiamo pensare il mondo a partire da una diversa continuità e discontinuità tra uomo e ambiente, tra cultura e natura? Possiamo operare senza mettere in discussione il rapporto tra uomo e natura su cui si sono costruite le visioni del mondo (Descola,2004)? Natura è un concetto dal quale derivano le scienze così come noi occidentali le abbiamo inventate e le predichiamo compresa l’invenzione della stessa ecologia. Un’idea evidentemente molto vantaggiosa per chi l’ha pensata. Tutto è immaginato dagli uomini a loro riflesso e questo rende l’ambientalismo orfano di un sapere correttamente costruito, che possa illuminare alternative possibili. Anche nelle parole di Jeffrey Sachs, (direttore del Centro dello Sviluppo Sostenibile della Columbia University e consigliere speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite sugli SDGs) ospite della seconda plenaria, si legge la domanda di una revisione concettuale “Occorre ripensare il sistema economico… Il concetto di sviluppo sostenibile è nato 27 anni fa e stiamo ancora cercando di realizzarlo.” (Milano al Salone del Risparmio, aprile 2019).
E, dunque, che possono fare le città e l’urbanistica per un tema così grande e invincibile? Che cosa po’ fare la politica e le istituzioni per creare capacità e rendere le persone consapevoli e più responsabili di fronte a sfide così grandi? Molto, perché l’urbanistica che ha come fine la ragion pratica che sollecita capacitazioni (Donolo, 2014): la capacità rimanda al senso universalistico di essere umano soggetto di attività orientate che ciascun individuo può fare per il raggiungimento di un obiettivo (Nussbaum,2014). Che sono effettivamente in grado di fare le persone per risparmiare risorse, contenere le iniquità, farsi cura degli altri? Quali sono le opportunità a loro disposizione perché siano in grado di scegliere ed agire per il meglio? (Human development report delle ONU dal 1990).
La Conferenza ha posto sul tavolo i temi dell’Urbanistica di fronte all’Agenda 2030 mostrando luci e ombre, opportunità e occasioni perse: le città oggi possono aiutare la politica a farsi carico delle capacità degli umani a migliorarsi e migliorare il loro ambiente. I protocolli che non possono avere una natura esclusivamente tecnica e di countability ma dipendono quasi esclusivamente dalla capacità di attivare consapevolezza e senso di responsabilità: meglio parlare di cibo se vogliamo parlare di agricoltura sostenibile e accessibilità alimentare e lotta allo spreco (Sonnino, 2013).
Il progetto della transizione è dunque per l’Urbanistica un altro progetto (Bianchetti, prima plenaria), che ci impegna tutti, ideatori e utenti, progettisti e abitanti, diverso dal progetto del Moderno, dal quale stiamo forse prendendo definitivamente la distanza. All’orizzonte appaiono le prospettive di azione del progetto di paesaggio e la sua nozione (Donadieu, II plenaria), comprensiva dei termini sostenibilità e resilienza perché non può prescinderne, un progetto che ormai respira aria di famiglia con il progetto urbanistico (Mininni, II plenaria, moderatrice). Il progetto di paesaggio potrebbe offrire una cornice concettuale e operativa di sicuro interesse, grazie proprio alla sua dimensione tecnica e procedurale, che ha messo a fuoco occupandosi proprio in Italia di alcune questioni spinose del progetto urbanistico, come l’abusivismo soprattutto quello costiero, la riqualificazione delle periferie, il periurbano, etc, senza mai scordare la cornice estetica e concettuale del paesaggio come giardino. Forse una metafora generativa che aiuta a raccontare la città dopo quella di corpo, organo, metabolismo, mettendo in luce dimensioni ancora mai viste della complessità dei legami tra urbs, civitas e natura (Fava, I plenaria).
*Università della Basilicata mariavaleria.mininni@unibas.it