di Fabiano Compagnucci*
L’intervista a Stefano Boeri (“la Repubblica” 20/04/2020) ci offre lo spunto per una breve riflessione sulle possibili conseguenze del Covid-19 a livello insediativo. Più che dall’ottica delle città, però, preferisco partire dall’ottica contraria, un po’ come farebbe la Szymborska, ossia da quelle delle aree interne, in cui molti dei borghi cui Boeri si riferisce, oltre naturalmente a quelli che cingono le città metropolitane, sono situati. Distinzione fondamentale questa: i borghi attorno alle città metropolitane ne costituiscono la cintura urbana, con tempi di accesso ai servizi essenziali accettabili, a differenza di quanto accade per quelli localizzati nelle aree interne.
Le aree interne italiane sono un fenomeno qualitativamente e quantitativamente rilevante, che interessa il 23% della popolazione italiana, il 60% del territorio nazionale e circa la metà dei suoi quasi 8.057 comuni. Nelle aree interne è in corso un processo di marginalizzazione socioeconomica ed invecchiamento della popolazione che prosegue ininterrottamente, anche se con intensità diversa e generalmente decrescente, dagli anni del boom economico. Causa ed effetto, al tempo stesso, è la mancanza in questi luoghi di economie di agglomerazione, ossia dei vantaggi derivanti dalla prossimità: la mancanza di densità e la scarsa accessibilità rendono più difficile svolgervi attività economiche; il mancato raggiungimento di soglie dimensionali adeguate, poi, rende antieconomica, direbbe un ragioniere, la fornitura dei servizi essenziali, in un processo di causazione circolare negativa. Ma, a differenza delle città, proprio la bassa densità abitativa e produttiva, la grande disponibilità di spazio, il basso valore della rendita immobiliare, per non parlare della qualità ambientale delle aree interne, potrebbero rivelarsi degli attrattori formidabili in epoca di “distanziamento sociale”.
Ma attrattivi per chi? Nonostante il morbo colpisca l’essenza stessa della città – i contatti ravvicinati – sembra assai poco probabile che a breve assisteremo ad un esodo biblico dalle aree urbane a quelle interne. Le città, come ci ricorda la Jacobs, sono sempre state, e probabilmente sempre saranno, il centro e il motore del cambiamento sociale ed economico della maggior parte delle civiltà umane, e, molto probabilmente, sapranno sopravvivere anche a questa prova. Al contempo sappiamo, però, che le preferenze degli individui sono eterogenee: questa consapevolezza lascia ritenere che la pandemia possa aver insinuato in alcuni e rafforzato in altri, certo per ora una minoranza della popolazione urbana, la volontà di spostarsi dove il contagio è meno probabile, grazie ad abbondanza di spazio e rarefazione delle relazioni. Ciò che rende interessante questa ipotetica scelta localizzativa dettata dalla paura del virus è la sua mixite sociale che la ispira, potendo riguardare professionisti benestanti alla ricerca anche di qualità ambientale, il sottoproletariato urbano dei servizi alle persone in cerca di valori immobiliari più bassi, giovani con ambizioni imprenditoriali che si coniughino ad uno stile di vita più sostenibile.
Scelte che dovrebbero territorializzare nelle aree interne e nei suoi borghi non solo la funzione residenziale, come sembra suggerire Boeri forse riferendosi alle sole cinture urbane, ma anche le strategie ed i piani di investimento degli individui, che, in quelle aree, vanno a situare il centro della loro vita. Anche perché, nel caso della sola scelta residenziale bisognerebbe riuscire a conciliare l’offerta del servizio di trasporto pubblico con una domanda policentrica di dimensioni ridotte, binomio che spesso si sostanzia nell’esplosione dell’uso del mezzo privato.
Tali scelte insediative, anche nel caso non raggiungano grandi numeri, possono comunque produrre effetti significativi rispetto al rischio di desertificazione che corrono le aree interne. Ben vengano, dunque, gli incentivi per agevolare il ripopolamento dei borghi storici, insieme, però, all’impegno della Strategia Nazionale per la Aree Interne (SNAI) nell’adeguare la qualità e la quantità dell’offerta dei servizi essenziali, insieme ad un’ottima connettività telematica nelle zone sprovviste, senza cui i soli incentivi “residenziali” non sarebbero in grado di produrre effetti strutturali, rischiando tra l’altro di produrre uno sprawl basato sui borghi invece che sui nuovi quartieri.
Un’ultima considerazione riguarda l’orizzonte temporale delle scelte localizzative rispetto al Covid-19. Certo, con il vaccino tutto potrebbe tornare rapidamente alla “normalità”. Purtroppo, se guardiamo agli ultimi 20 anni, si possono contare già diverse ondate epidemiche: la Sars nel 2002, il virus Nipah nel 2005, l’influenza suina (H1N1) nel 2009, la Mers nel 2012, Ebola nel 2014, il Covid nel 2019. Gli allevamenti intensivi, uno dei pilastri dell’insostenibile modello di consumo alimentare globale, sono situati sempre più frequentemente in aree disboscate a ridosso della wilderness, accrescendo considerevolmente il rischio di spill-over dei patogeni fra specie diverse, compresa quella umana. Forse, e purtroppo, dovremmo imparare a convivere con ondate sempre più frequenti di epidemie e pandemie. Forse, la scelta localizzativa nelle aree interne, potrebbe divenire meno residuale.
*GSSI, Social Sciences fabiano.compagnucci@gssi.it