di Giovanni Laino*
La gravissima crisi ha evidenziato anche due cose. È chiaro che il rischio zero non esiste. Le convenzioni, i compromessi e le decisioni di chi governa trovano un certo equilibrio variabile fra le misure di sicurezza e la tutela delle libertà. Ma la crisi evidenzia anche un’altra cosa altrettanto importante: il costo zero non esiste. Ogni catastrofe determina dei costi – economici oltre che psicologici e culturali – che, sempre riferibili alle condizioni preesistenti, non sono mai del tutto rimborsabili. Relativamente al modello di giustizia riparativa che si riesce ad attuare, le vittime – quando le cose funzionano – ottengono dei benefici, più o meno commisurati al danno subito ma mai capaci di un rimborso esaustivo. In genere poi la crisi polarizza le disuguaglianze ed è più dura per chi ha meno capacità e beni.
So qualcosa dei prezzi che si pagano. Mio nonno materno è morto di malaria, quello paterno, insieme a una decina di figli, di febbre spagnola e mia sorella è stata colpita dalla poliomielite a due anni. Poi, nel novembre del 1980, per il terremoto, la casa ove abitavo con la famiglia è stata dichiarata inagibile. Ho ottenuto un assegno di solidarietà dal Politecnico di Torino ove mi ero trasferito da due mesi, pari al costo di tre viaggi notturni in treno Napoli Torino, andata e ritorno, e un chilo di parmigiano distribuito dalla Unione Europea. Tutti guai che hanno ci hanno cambiato la vita, anche aprendo opportunità.
La richiesta di aiuto di varie categorie di imprese, lavoratori, privati cittadini è certamente legittima. Solo che una certa idea del benessere e della sicurezza ha convinto molti che le catastrofi possano avere per noi un costo zero, affidandolo alla collettività che, coinvolgendo le nuove generazioni, distribuisce il costo sociale in alcuni decenni. Inoltre si confondono i costi riferibili alla necessaria erogazione di stipendi e salari con i ridotti guadagni e le mancate rendite che vengono reclamate dai titolari di imprese che prima hanno privatizzato i profitti e poi chiedono di socializzare le perdite.
Il trattamento di questo problema è un costrutto sociale, quindi tutto dipendente dalla condivisione di fatti e valori e da accordi su cosa, come, dove e quando. Si tratta obiettivamente di un’arena ove, interpretando in vari modi le teorie della giustizia, si deve trovare un equilibrio che viene certamente condizionato dalla forza di fare opinione e di imporre argomentazioni dei diversi interessi in campo.
Ogni giorno provano a farsi sentire i portatori di interessi che colpiti dalla crisi, chiedono aiuto solidale, argomentando sulla gravità e sull’impatto sociale delle perdite. Il caso dei gestori di B&B e delle case vacanze mi sembra emblematico.
In alcune città è ben nota la straordinaria diffusione di abitazioni destinate a turisti di breve permanenza. Un fenomeno che negli ultimi anni ha cambiato radicalmente il loro volto e comunque ha trasformato a fondo la divisione sociale del patrimonio abitativo. A parte quelli che abitano nella casa di cui hanno messo a disposizione una o due camere per l’accoglienza di breve periodo, gli altri hanno ottenuto rendite ben remunerative sottraendo migliaia di alloggi al mercato del fitto per le famiglie. In diversi casi si tratta di persone che per investire, magari in favore dei figli o per attività ancor più estese, hanno acquistato alloggi che hanno arredato come B&B impegnando, non sempre con contratti regolari, singole persone per le pulizie, le attività di accoglienza, che in alcuni casi sono minime e svolte grazie al web e allo scambio di codici per entrare nelle abitazioni. Negli ultimi anni questi investimenti sono stati molto remunerativi e se hanno contribuito a fare crescere il numero di turisti nelle città hanno anche avviato una guerra dei prezzi, anche a scapito di strutture organizzate in modo più professionale e qualificato.
Quindi sino all’evidenza della crisi che ha provocato disdette e blocco degli arrivi, una buona parte di queste categorie hanno ottenuto ottime rendite facendo però pagare una parte del prezzo di tale arricchimento alla collettività, per l’aumento del disagio abitativo e per altri oneri che un turismo predatorio ha imposto alla collettività: aumento dei costi per l’igiene urbana, per i trasporti e per diversi altri servizi. Questo con un elevato tasso di evasione dai pur limitatissimi tributi che queste attività hanno prodotto per le casse dei Comuni, dell’erario e dell’INPS.
Ora, trovandosi obiettivamente con case che sono e saranno per molti mesi vuote, in una attività che difficilmente arriverà ai livelli precrisi, i proprietari di B&B e case vacanze chiedono aiuti per remunerare l’intero ammontare di perdite. Insomma la solidarietà collettiva dovrebbe remunerare anche le rendite non incassate.
Si tratta di una richiesta che comparata a quella di molti altri segmenti della società non risulta lecita. Ma è l’occasione per trovare una soluzione di miglior ristoro per tutti. Ogni crisi è occasione per ridefinire il patto sociale. Si dovrebbero prevedere degli aiuti significativi ma vincolati all’effettivo riutilizzo delle abitazioni come case date in fitto a famiglie residenti da tempo, a prezzi equi e con un vincolo di una significativa durata del fitto. Magari anche cooperando con le agenzie per la casa che sono attive in diverse città. In verità qualche studioso ha indicato anche ipotesi più radicali secondo le quali le autorità potrebbero in qualche modo rendere conveniente e quasi imporre scelte di tale genere ai proprietari. Credo che sia in Urban@it che in SIU sia giusto e opportuno lavorare per immaginare una proposta per i decisori politici, magari ci proviamo per dare un contributo come esperti e ricercatori.
Se non ora, quando?
*Presidente del Comitato scientifico di Urban@it laino@unina.it