di Massimo Morisi*
Il traino della commercializzazione globale del paesaggio italiano e di quello urbano in specie è dato dalle sue città “mito”. Firenze ne è l’epitome: …sarà perché la tramvia sta imponendo alla città la più grande trasformazione del proprio volto urbano e dei suoi profili estetico monumentali dai tempi di Alessandro Pavolini ai giorni nostri; sarà perché Piazza del Duomo, una volta pedonalizzata, ha di fiorentino solo un manipolo di grandi famiglie della ristorazione locale e internazionale; sarà perché Piazza San Marco, la piazza del Convento del Beato Angelico e di Giorgio La Pira, è divenuta un terminal per autobus ; s a rà perché quella Via de’ Neri è “h24”un vociante bivacco di folle assatanate di vino, schiacciate e finocchiona; sarà perché le periferie reclamano anch’esse un po’ di movida; sarà perché tutti vogliono più libertà, più innovazione e più sicurezza e i convegni sulle smart cities hanno ormai cadenza mensile ma nessuno riesce a proporre e a declinare una nozione di efficienza urbana che non sia il confuso riflesso di semplificazioni digitali d’importazione; sarà perché vi sono università straniere e sempre nuovi e più grandi e studentati a “7” stelle che vendono ammiccanti e alcoliche vacanze fiorentine più che valutabili percorsi formativi e di ricerca; sarà perché Coop, Esselunga, Conad sono i frigoriferi settimanali dei fiorentini ma tutti ricercano le botteghe di quartiere e si aggrappano, costi quel che costi, ai mercatini rionali o a quei monumenti alla tradizione di quartiere rappresentati da Sant’Ambrogio; sarà perché la rendita di posizione pochi arricchisce, poco redistribuisce ma sempre accoglie nelle proprie filiere di processo e di prodotto quote importanti di economia informale o di atteggiamenti collusivi con la medesima; sarà perché fare impresa sfruttando il mito di una città d’arte raramente si associa all’innovazione e al rischio competitivo del libero intraprendere e dunque al formarsi e al radicarsi di funzioni direttive abbastanza colte per non reiterare consuete e incrementali ricette accumulative (Pitti uomo, Pitti bimbo, Pitti immagine, Pitti gatto etc. etc. sempre e soltanto nel cuore antico della città); sarà perché il patrocinio dell’Unesco altro non si rivela che un brand additivo che in nulla filtra o qualifica il merito delle politiche intenzionali o inerziali con cui la città antica si lascia sommergere dal popolo degli infradito, del perenne ingurgitare, del fin de semana da sballo, delle code “bagarinate” degli Uffizi, delle patacche firmate Gucci, dei trolley in costante carosello nella selva degli airbnb; sarà perché i processi di espulsione di nuovi e vecchi residenti a vantaggio della città in “autolocazione” …a giornata, a posto letto, quasi ad ore, stanno erodendo qualunque legame e qualunque solidarietà di vicinato; sarà per tutto questo e molto, molto altro ancora che …non capiamo se una città come questa – insieme a quelle per le quali è agognata o temuta come un idealtipo – sappia ancora alimentare e connotare un suo paesaggio urbano. E dunque dotato di un qualche valore socialmente condiviso e meritevole di cura e tutela ad opera di chi la abita e la vive.
Ossia un paesaggio vivente, vitale, civile, riconoscibile, strategicamente selettivo e dialetticamente consapevole delle conflittualità che ingenera o almeno sottende e dello scarto che provoca tra prospettive e opportunità di breve periodo e impatti di lungo andare. E quindi, ancora, un paesaggio conseguente a quelle invarianti identitarie che possono recuperarne una qualche sostenibilità ambientale, funzionale e sociale. O se sia divenuto un paesaggio ormai “perduto”: figlio della irreversibile rimozione etica, estetica e gestionale di quelle stesse invarianti che avrebbero dovuto, ove rispettate, preservarne il valore. Che è come chiedersi, in generale, se dobbiamo guardare un tal genere di realtà urbane limitandoci ad aristocratiche nostalgie da grand tours, o se possiamo ancora ragionevolmente costruire politiche pubbliche per l’epoca in cui i paesaggi, a cominciare da quelli urbani, si comprano e si vendono tra i flussi turistici e le conseguenti riallocazioni planetarie dei valori immobiliari e delle funzioni insediative. E se dobbiamo far leva su quanto ci allarma per evitare che le città di antica formazione divengano dei nuovi “non luoghi” commerciali.
Parliamo di politiche pubbliche molto ambiziose. Al limite dell’impossibile. Politiche differenziate e ad articolazione plurima, derivanti da una progettazione di medio e lungo andare che richiedono dotazioni di “capitale politico” – locale e nazionale – molto consistenti e che presuppongono capacità di legittimazione assai solide per un’effettiva messa in opera di apposite linee di governo coordinate su scale multilivello. Tutte condizioni assai difficili da soddisfarsi ai nostri giorni e in questo Paese. Perché vertono su tre grandi questioni: a) come definire gli spazi e i circuiti turistici nel contesto urbano e metropolitano a fronte delle reti interattive in cui si articolano la domanda e l’offerta di servizi e le prestazioni funzionali all’industria e alla finanza del turismo globale; b) come formulare e applicare regole, eccezioni, incentivi, disincentivi, limiti, controlli e concertazioni per orientare, contenere e trattare i flussi turistici e le filiere delle attività che li stimolano e li guidano; c) come redistribuire e compensare i costi e i benefici del mercato turistico e secondo quali principi di equità e di ragionevolezza al fine di una qualità condivisa del risiedere, dell’abitare e del convivere.
*Università di Firenze – massimo.morisi@unifi.it