di Francesco Gastaldi*
Con la crisi del Covid c’è stata una messa in dubbio delle centralità urbane e della città compatta, da diversi punti di vista (e con diversi approcci) ci si è interrogati in modo critico sul “modello Milano”, si è parlato di ritorno delle periferie grazie al boom dello smart-work, si ipotizza che, anche in condizioni “normali”, resterà una parte di lavoro a casa (es. 1-2 giorni a settimana). Un indizio di questa tendenza lo troviamo nel “caso Vodafone”, è stato firmato l’accordo per regolare lo smart working tra Vodafone Italia e i sindacati. L’intesa prevede l’utilizzo per tutti i seimila lavoratori del gruppo, anche dopo la fine dell’emergenza, con una fase sperimentale della durata di un anno, ma si prevedono già dei principi che potrebbero essere adottati definitivamente. A regime gli impiegati del gruppo lavoreranno al 60% in smart working, nell’ambito dei call center si arriverà all’80 per cento. Precedentemente Facebook aveva già scelto di abbracciare lo smart working permanente, Mark Zuckerberg aveva spiegato che entro i prossimi 5-10 anni, il 50% dei dipendenti dell’azienda lavorerà sempre da remoto. Per il Ceo, questa soluzione presenta numerosi vantaggi: non solo permetterà a Facebook di collaborare con professionisti sparsi per tutto il mondo e avrà anche un impatto positivo sull’ambiente.
Numerose altre aziende, in Europa e nel mondo si stanno muovendo in queste direzioni descritte e sorge spontanea una riflessione. I primi anni Duemila hanno segnato, anche in Italia, una diffusione di progetti firmati da archistar, ovviamente progetti di grande dimensione e spesso situati nelle centralità urbane o di facile accessibilità. Lo Star System dell’architettura ha provveduto alla loro costruzione, lancio e promozione, attraverso efficaci sistemi divulgativi. Spesso si tratta di progetti ambiziosi che non si limitano al disegno architettonico degli edifici, ma assumono una grande rilevanza, talvolta perfino nell’ambito di strategie di rilancio o di ridefinizione dell’immagine complessiva di un sistema urbano. In alcuni casi, alla base di queste realizzazioni promosse nell’ambito di più vasti processi di trasformazione urbana (e di finanziarizzazione dell’economia e delle trasformazioni stesse) da grandi gruppi bancari e assicurativi, c’era la teorizzazione secondo cui questi grandi edifici dovessero combattere il “consumo di suolo”
Dagli anni Novanta, la dimensione degli interventi (spesso aree industriali dismesse e da riqualificare), i soggetti coinvolti (spesso grandi gruppi imprenditoriali o finanziari, aziende con brand internazionali) e le aree interessate, centrali o a forte valenza simbolica interessate dai progetti e il battage mediatico sulle operazioni immobiliari, hanno decretato il grande successo delle archistar, come ideatori di progetti a forte valenza simbolica. C’era la convinzione che queste ultime potessero fornire la soluzione ideale per intercettare nuove opportunità economica e nel campo dei servizi, le archistar divenivano figure garanti nel successo dei progetti, concorrendo alla creazione di consenso e di un clima di fiducia tra policy maker e popolazione.
Le crisi (quella post 2007-08 e quella del Covid) e le difficoltà economiche di molti operatori e le difficoltà del mercato immobiliare hanno accelerato tendenze già in atto. Una riduzione dell’afflusso di lavoratori verso questi grandi contenitori, potrebbe annullare il ruolo di propulsore delle trasformazioni delle centralità urbane giocato dalle archistar o ridurlo notevolmente. Forse potrebbe esserci un’occasione per riflettere sul fatto che molte delle aspettative che soggetti pubblici e privati hanno avuto nei confronti degli architetti mediatici, sono state più presunte che reali.
*Professore associato di Urbanistica, Università IUAV di Venezia gastaldi@iuav.it