di Giampiero Lombardini*
A Genova fervono i lavori nel cantiere per la realizzazione del nuovo viadotto autostradale sul torrente Polcevera. I lavori sembrano a buon punto ed è stata annunciata l’inaugurazione dell’opera per la fine di giugno. L’opera viene realizzata in totale deroga a tutte le leggi ordinarie in materia. Si sente affermare che mai si sarebbero potuti raggiungere certi record in fatto di rapidità senza il superamento delle procedure ordinarie. Al centro della discussione (e delle accuse) c’è evidentemente il Codice degli Appalti e tutta la pletora di regolamenti e procedure che gli ruota attorno. Il caso genovese potrebbe diventare (se già non lo fosse) di rilievo nazionale proprio sotto questo profilo: quali saranno gli strumenti con i quali si costruirà la città pubblica nei prossimi anni in Italia? Appare evidente che oltre due decenni di continue revisioni della legislazione in materia di opere pubbliche hanno prodotto continue riformulazioni e correttivi, mancando però il bersaglio dell’efficacia.
Di fronte alla crisi degli strumenti di gestione ordinaria della spesa pubblica (in urbanistica, per rimanere in un ambito contiguo a quello delle opere pubbliche, il ricorso a strumenti derogatori è diventato ormai prassi diffusa e capillare), sembra opportuno domandarsi se le procedure emergenziali possano costituire l’esempio da cui partire per ripensare l’intera macchina economico-procedurale pubblica. Le moltissime opere pubbliche di cui l’Italia avrà bisogno nei prossimi anni non potranno essere realisticamente realizzate tutte per tramite di nomine commissariali, facendo assurgere la deroga all’ordinario come prassi corrente. Eppure, stanno maturando le condizioni perché si introducano drastiche modifiche “semplificatrici” che, dietro la motivazione dell’efficacia, rischiano di mettere in discussione alcuni presupposti di trasparenza e partecipazione che presiedono le modalità attraverso cui viene operata la scelta pubblica. In effetti, se volgiamo indietro lo sguardo, anche senza risalire fino al Barone Haussmann, la maggior parte delle leggi in campo urbanistico-edilizio è nata sotto una spinta emergenziale. Ne sono un esempio la legge di Napoli, oppure il DM 1444/1968 sugli standard urbanistici, varato sull’onda dell’emotività popolare esplosa dopo i tragici eventi di Agrigento, Firenze e Venezia. Leggi nate per affrontare delle emergenze che si sono poi consolidate e sono diventate “ordinarie”.
Lo stesso sembra poter accadere oggi, nel momento in cui un Paese profondamente in crisi deve ripensare le sue modalità di intervento; in una fase nella quale, tra l’altro, al soggetto pubblico verrà chiesto di esercitare un ruolo molto rilevante (il caso genovese mette in evidenza anche questa questione: le imprese che partecipano alla costruzione sono quasi interamente a partecipazione statale). Se si vuole rimanere entro un orizzonte di public choice, a fronte di queste fortissime spinte alla centralizzazione di risorse e di scelte, occorre interrogarsi sull’efficacia e sulla praticabilità di procedure e metodi che per anni si sono dati per scontati o quasi. Ad esempio, se si assume che un’opera pubblica debba passare attraverso l’attenta valutazione (almeno) dei suoi potenziali impatti sull’ambiente, dei costi (considerando l’intero ciclo di vita dell’opera stessa) e infine, ovviamente, della corretta realizzazione a regola d’arte, urge domandarsi attraverso quali strumenti queste garanzie possano essere mantenute, assicurando al contempo certezza, speditezza ed efficacia delle procedure.
Il metodo largamente ritenuto preferibile, quello della scelta tra alternative e della più larga condivisione pubblica possibile, adottato ad esempio (almeno formalmente) nelle procedure di VIA e di VAS sembra che debba essere quanto meno ripensato o quanto meno ne vadano ripensate a fondo le procedure. Anche se non è solo una questione di procedure, ma di metodologia della scelta e quindi di etica.
*Università di Genova giampiero.lombardini@unige.it